lunedì 24 dicembre 2012

Natale tra i mostri

Buon Natale e buone feste a tutti! :D E come regalo, ho finalmente trovato il modo di cominciare la serializzazione di un piccolo progetto che sognavo da parecchio tempo: La Città dei Mostri! Nulla a che vedere con i miei romanzi veri e propri, ma è una cosa a cui sono molto affezionata e volevo realizzare da anni... Ma basta con le chiacchiere ed ecco a voi il preludio! Lo trovate a questo link: muahahahaha!

mercoledì 12 dicembre 2012

un piccolo piccolo teaser...

Un piccolo assaggio del racconto a puntate a cui sto lavorando per un sito di fanfiction (oh, beh, questa non ha niente di fanfiction... ma non importa XD)!
dalla vostra circus monster princess Cordelia

L'aria ha l'odore del sangue.

Ormai non ho più la forza nemmeno di girarmi, ma in fondo non lo voglio davvero: so già cosa vedrei, e il mio unico desiderio in questo momento, l'unica preghiera che riesca ancora a fare è che mi sia risparmiato il più a lungo possibile il confronto con la realtà.

“Come siamo arrivati... a questo... ?”

E' una domanda retorica questa, ma mi fa ugualmente venire le lacrime agli occhi: non ho infatti risposte da offrire a quella voce bassa e roca, così diversa dalla mia e così amata.

Mi sforzo di ritornare con la mente ai mesi passati insieme.

Già, come eravamo arrivati a questo?

Possibile che dal bene possa nascere tanto male? L'amore è forse qualcosa di sbagliato di per sé stesso, una malattia che dovrebbe venir estirpata ovunque si presenti? Si vivrebbe meglio senza amare? Oppure, più semplicemente, si deve saper accettare che ci sono cose a questo mondo più preziose dei sentimenti, cose che nemmeno la pretesa di “fare del bene” a chi si ama ci consente di violare?

Cerco – senza riuscirci – di scuotere la testa.

martedì 13 novembre 2012

Il Cuore della Città


Tutto intorno a lui era quieto.
Le ombre della città si stavano allungando nella tenue luce rossastra del tramonto, avvolgendo con tentacoli scuri le vie ed i vicoli, mentre facevano risplendere di una strana luce malsana le facciate degli edifici rivolti ad ovest.
La parte vecchia della città era avvolta invece dalle ombre degli edifici più grandi che la circondavano, e già da molto tempo le sue piccole strade erano sommerse nelle tenebre. Qui vivevano poche persone, per lo più anziani ed emarginati, e a quell'ora del crepuscolo le vie erano semideserte.
Ogni tanto incrociava qualche gruppo di giovani, seduti di fronte alle porte degli edifici o appoggiati alle proprie macchine, intenti a fumare o litigare tra loro. Altre volte intravvedeva gruppi più piccoli sgattaiolare nei vicoli verso il loro prossimo misfatto.
Di tanto in tanto la quiete veniva interrotta da un rumore più forte, come il passaggio di un'auto o il distante rumore di qualcosa che si spezza, forse addirittura uno sparo.
Si avvolse ancora di più nel lungo cappotto nero, cacciandosi le mani in tasca per ripararle dal freddo umido che cominciava a serpeggiare per quelle vie, come una creatura orribile che, svanita la luce del sole, usciva dai tombini e dalle fogne strisciando alla ricerca delle sue prede. Scacciò quel pensiero scuotendo il capo, e le ciocche di capelli scuri gli andarono a coprire gli occhi.
Svoltò.
Si ritrovò in una strada più piccola e tortuosa di quella appena abbandonata, giusto larga abbastanza per far passare due persone affiancate. Ai lati di questa, incastrati nelle fiancate di alti edifici, si ergevano antichi portoni incassati. Certi erano chiusi con pesanti porte di ferro o di legno, mentre altri erano aperti e davano su cortili interni abbandonati e selvaggi di palazzi un tempo ricchi e sfarzosi. Tutto era rovina ed anticaglia.
Qui e lì si intravvedevano vagabondi sdraiati o gruppetti di strane persone condurre affari probabilmente piccoli, meschini e probabilmente loschi, ma lui non era qui per questo.
Cambiò strada un altro paio di volte e pareva che ad ogni volta che svoltasse queste si stringessero sempre più. Seguiva uno schema nel suo percorso, come una logica nota soltanto a lui. E ogni volta che cambiava strada ne imboccava una ancora più stretta. Incrociava sempre meno persone e sempre più spesso queste persone erano strane, diverse. Alcune avevano occhi di colori strani, altre pareva nemmeno provenissero da questo mondo tanto erano perse nelle loro stesse menti. Alcune invece erano individui oscuri come lui stesso e si nascondevano tra le ombre dei cortili sotto alle fronde degli alberi, come a voler rifuggire i raggi pallidi della luna.
La strada che stava seguendo si interruppe quando ormai era talmente stretta che, a parte quando incrociava l'androne d'una porta o l'apertura su un cortile a fare spazio, doveva procedere camminando di traverso. Lì il vicolo sbucava su una piccola specie di piazza semicircolare. Di fronte a lui, ad interrompere quel cerchio di bassi muretti che partiva ai lati dello sbocco della piccola via, stava un edificio largo più dello spiazzo stesso e che su questo affacciava il suo ingresso. Questa era una porta a doppia anta di un verde scuro, quasi marcio, ornata da spesse borchie di vecchio metallo.
La porta era leggermente rialzata e sulla scalinata quadrata che saliva stava una figura. Pareva piccola. Avvolta in uno spesso mantello nero. Sotto al cappuccio si poteva intravedere un volto senza età, ma sgraziato e brutto nei lineamenti, con un naso sporgente ed un mento nodoso come la radice di un albero secolare. Dalla schiena gli spuntava una gobba che gli dava un'aria irreale e la posizione delle braccia faceva sembrare che questi fosse un uomo estremamente alto la cui colonna vertebrale, attorcigliata in maniera strana, si ripiegasse su sé stessa dando quello strano effetto ingobbito. Le lunghe braccia pendevano ai suoi fianchi ed aveva un'aria annoiata. Lo sguardo che vagava avanti ed indietro alla ricerca di qualcosa su cui posarsi come se quello scenario che aveva davanti fosse sempre lo stesso da giorni e giorni, e forse era proprio così.
<<Finalmente...>> Borbottò quella strana figura non appena vide l'estraneo introdursi nella piazzetta e cominciò a muoversi verso di lui con una andatura lenta ed ondulante. <<Che ne hai messo di tempo!>>
<<Sei un buon guardiano, Lachamot.>> Rispose questi, man mano rallentando mentre la figura del gobbo si avvicinava mostrando che in realtà era tutt'altro che piccolo e rachitico, ma alto e imponente nonostante fosse curvo. <<Ti ho chiesto un favore e in cambio te ne ho esaudito un altro. Non temere. I patti sono stati mantenuti.>> E così dicendo estrasse da sotto la giacca una piccola moneta. Sembrava antica, ma la stampa precisa era illeggibile dato che il piombo non aveva mantenuto bene la sua forma per tutto quel tempo. Qui e lì si intravvedeva ancora la doratura che le era stata applicata dal falsario che l'aveva prodotta molto tempo prima.
<<È autentica?>> Chiese Lachamot.
<<No.>> Rispose lo straniero in tutta sincerità e gliela porse.
Il guardiano lo guardò con sospetto. Prese la moneta con le lunghe dita ossute e la soppesò attentamente, scrutandola con quei suoi occhi torbidi. Sulle prime non sembrava soddisfatto e continuava a lanciare occhiatacce all'altro come se volesse vedere se questi stava mentendo. Si cacciò poi la moneta in bocca e, dopo averla morsa e masticata, la deglutì.
<<Soddisfatto?>> Chiese lo straniero.
Lachamot lo guardò trovo. <<Per ora sì.>>
<<Per ora...? Avevamo un accordo, ricordi?>>
L'altro borbottò qualcosa e attorno a lui s'addensò l'ombra. Pareva che la notte si stesse facendo più fitta, come se da sotto al suo mantello uscisse lentamente ombra solida. Chiaramente non era contento.
<<Io ti ho dato quanto mi avevi chiesto. Ora tu portami da lei.>>
<<Come vuoi, Lewis.>> Ringhiò il gobbo. <<Ma non pensare che la prossima volta sarò così generoso con te.>>
Lachamot si girò e risalì i suoi gradini e lentamente si aprirono le porte di fronte a lui. La notte si fece sempre più buia e il cielo stava oscurando la luna e la luce di quelle poche stelle che si vedevano oltre agli aloni luminosi della città.
<<Prego...>> Grogogliò il guardiano della porta, cedendogli il passo.
Lewis entrò.
Si trovava in uno di quei vecchi edifici di epoca coloniale. La struttura in legno e muratura era visibile in più punti dove l'intonaco e l'antica carta da parati avevano ceduto e qui e lì s'accumulavano collinette di detriti marcescenti. I mobili che avevano retto al tempo e all'umidità rimanendo abbastanza integri si ergevano cupi lungo le pareti rovinate. Librerie, armadi, cassettoni e mensole si trovavano in ordine sparso in giro e certe volte anche rovesciati per terra.
La prima stanza che incontrò dopo aver attraversato un breve corridoio le cui pareti erano dipinte di verde e quello che una volta doveva essere bianco era una specie di salone. Lungo le pareti di questo salivano delle scale di legno dall'aspetto avvizzito e marcio, ma ancora integre. Al centro, appoggiato al muro di fronte a lui, stava un grosso orologio a pendolo imponente come un armadio, ma fermo ad un'ora di molto tempo fa. L'odore di chiuso e di vecchio rendevano l'aria irrespirabile. Anche la polvere era ormai talmente spessa ed intrisa di umido da appiccicarsi alle superfici creando una patina quasi solida.
Lewis cercò di ignorare tutto questo e prese la scala sulla sinistra. Tutta la struttura cigolava e scricchiolava ad ogni suo passo e più di una volta dovette ritirare il piede da dove l'aveva appoggiato, sentendo il legno farsi morbido e cedevole sotto al suo peso. A metà percorso, dove raggiungeva la parete in fondo alla stanza, la scala girava verso destra andando ad unirsi alla sua altra parte al centro della sala, sopra al vecchio orologio.
Quando raggiunse l'ultimo gradino sentì sotto di lui suonare dei rintocchi lenti e tristi, che altrettanto lentamente e tristemente percorrevano l'aria come onde sospinte dal mare placcido. Si udirono degli scricchiolii e davanti a lui, in fondo ad un altro corridoio che iniziava dove la scalinata finiva, si aprì una porta.
Il corridoio era piuttosto lungo e le mura di questo erano storte al punto che il percorso stesso fra queste pareva serpentino. Ad intervalli irregolari si aprivano altre porte su quello spazio angusto, ma tutte erano chiuse e Lewis non poté curiosare oltre. Decise così di dirigersi direttamente a quella che gli si trovava davanti. Alle sue spalle sentì i rintocchi dell'orologio affievolirsi e poi un tonfo mentre il portone che dava inizio a quel corridoio si chiudeva pesantemente. "Dannazione." Pensò. "Dovevo fare più attenzione..." Scosse il capo facendosi avanti fino a raggiungere quell'apertura, il più lontano possibile da quei cupi rintocchi che ancora lo perseguitavano attutiti ma non smorzati dal portone di legno dietro di lui, e sbirciò oltre.
La stanza era grande forse la metà del salone che si trovava all'ingresso, ma l'ordine le dava un aspetto più spazioso. Lungo tutte le pareti erano state allineate delle librerie, tutte di fattura diversa, cariche di libri e pergamene dall'aspetto antico. Lewis sapeva che quelle dovevano contenere tutta la storia della città. Era per questo che era venuto fin qui. Qui e lì l'immensa parete di librerie s'interrompeva per lasciare spazio ad una finestra, ma anche in questo caso nemmeno un millimetro di parete era lasciato libero ed i mobili circondavano letteralmente l'apertura su tutti i lati. Le finestre stesse erano in grandissima parte sbarrate con assi di legno e la debole luce della città filtrava pochissimo e illuminava poco o nulla. L'unica fonte di luce erano una serie di candelabri poggiati su di una scrivania in legno massiccio posta al centro della stanza, che reggevano molte candele ormai sciolte e ridotte a poco più che cumuli di cera incrostati sulla superficie del tavolo.
Dietro alla scrivania sedeva una donna. Questa era ovviamente vecchia e la sua pelle rugosa era del colore della pergamena e coperta di inchiostro. Lewis si avvicinò di qualche passo e vide che quell'inchiostro sulla sua pelle si muoveva e ricreava forme sempre nuove: scritte, disegni, simboli. Di fronte a sé teneva un libro aperto, che accarezzava con un dito, ma laddove il dito toccava lasciava delle scritte disordinate o produceva dei segni incomprensibili. Era tanto china sul suo lavoro che non si accorse nemmeno del suo ospite finché i rintocchi dall'orologio nel salone non cessarono e finalmente udì scricchiolare poco lontano da lei il pavimento.
Sollevò lentamente il capo, quasi come se l'ossatura si stesse riadattando ad una nuova conformazione, ed il viso nascosto dai lunghi capelli grigi e macchiati da chiazze di inchiostro si fece più visibile. Con grande stupore vide un volto di fanciulla, bella ma inespressiva, con la pelle grigia e senza tempo ricoperta anche questa dal quello strano inchiostro che sgorgava dalle voragini nere laddove avrebbero dovuto esserci gli occhi.
<<Benvenuto.>> Disse il Cuore della Città. <<Ti stavo aspettando...>>

mercoledì 7 novembre 2012

Work in Progress

Ehilà!

Ci siamo presi (penso giustamente) un po' di tempo dalla nostra attività per recarci in pellegrinaggio al Lucca Comics and Games 2012.

A breve riprenderemo l'attività.

mercoledì 24 ottobre 2012

Chiodi nelle Ali - work in progress

Sto lavorando al mio primo (racconto lungo? Romanzo?) di tema horror...
Devo dire che mi sto divertendo parecchio! XD

Ecco a voi un piccolo stralcio...



   Non credo dimenticherò mai la prima volta che la vidi.
Non so spiegare cosa mi fermò, quale maledetta pazzia mi portò a rallentare il passo e a fermarmi del tutto per guardarla: di certo, a un'occhiata distratta, non aveva nulla di notevole... eppure, per qualche motivo, i miei piedi si inchiodarono al suolo, impedendomi di proseguire.
   Lei se ne stava lì, i capelli mossi dal vento e le labbra serrate.
Guardava dritto davanti a sé con un'intensità che metteva i brividi: benché mi trovassi a un centinaio di metri da lei, non pareva aver notato la mia presenza.
   Era una bella serata di inizio estate.
La luce rossastra del tramonto annegava nei campi sfiorati dalla brezza leggera. Un acquazzone aveva rinfrescato l'aria in modo molto piacevole, le gocce che ancora splendevano sulle foglie degli alberi come piccoli diamanti.
L'odore di erba tagliata era soffocante.
   Ricordo di aver pensato ci fosse un che di nobile nel modo in cui stringeva al petto quello scialle scuro, nella sua presa, forte e gentile al tempo stesso. Mentre la guardavo, ebbi la netta impressione che, se quel tessuto così semplice e privo di decorazioni fosse volato via insieme al vento, lei avrebbe perso consistenza, sarebbe sbiadita come se la sua stessa ragione di essere l'avesse abbandonata: una farfalla senza più ali.
I nostri occhi si incontrarono solo una volta.
Ebbi paura.
Se solo avessi potuto immaginare ciò che sarebbe successo, ne avrei avuta molta di più.

giovedì 18 ottobre 2012

Una pagina di Favole del Crepuscolo



 Ecco per voi una pagina a caso (si, non è la prima... troppo banale XD) del mio romanzo Favole del Crepuscolo.
Leggete, leggete!


"Dall'altro lato della strada, un uomo sulla quarantina, alto e dal fisico possente, camminava a grandi passi guardando dritto davanti a sé. Portava una spada legata in cintura e vestiva con un completo elegante, completamente bianco, con al collo una croce rosso sangue. Non degnava di uno sguardo i passanti che incrociava e il suo passo era deciso, come quello di un soldato. Tutto l'insieme della sua figura contribuiva a dargli un'aria severa, accentuata dalla mascella squadrata e da un paio di baffi spioventi, color del ferro, che conferivano alla bocca dalle labbra sottili un taglio austero. Sembrava totalmente fuori luogo, in mezzo ai clacson delle automobili e alle orde di turisti con macchina fotografica che lo fissavano a bocca aperta.
Un Neo Templare.
   Gaia avvertì un brivido correrle giù per la schiena mentre lo guardava, sentendosi molto felice di essere al sicuro dentro un autobus.
Non le piacevano i Neo Templari.
Non piacevano quasi a nessuno, in verità, soprattutto lì nella Serenissima Repubblica.
   Un paio di poliziotte in divisa avevano intanto fermato l'uomo, presumibilmente chiedendogli i documenti o qualcosa di simile.
Le donne, entrambe sulla quarantina, avevano uno sguardo allo stesso tempo disgustato e spaventato.
   Stando a quanto aveva potuto studiare sui libri di storia, Gaia ricordava che nel 1936 era stata proposta al Maggior Consiglio una legge che rendeva illegale in tutto il territorio della Serenissima l'ordine Neo Templare, ma alla fine era stata bocciata: abbastanza curiosamente, i più accaniti sostenitori di questo decreto erano stati i membri umani del Consiglio.
- Il peggiore nemico dell'uomo è sempre l'uomo stesso... - rifletté tetramente la ragazza.
Per trovare una prova tangibile di questa specie di massima, bastava dare un'occhiata fuori dal finestrino.
Da quanto tempo non veniva piantato un albero fuori da Venezia? Gaia non conosceva la risposta, ma poteva vederne facilmente gli effetti: la natura si era definitivamente arresa alla morsa delle macchine ed era stata schiacciata dal peso della tecnologia. Fragili piante vive e pulsanti erano ovunque rimpiazzate da lisce e perfette riproduzioni in metallo leggero: docili, addomesticate, innocue. Prive di vita.
Duemila anni e più di civilizzazione per arrivare a sostituire la vita con la morte.
Un applauso al progresso."


giovedì 11 ottobre 2012

Il Corvo e il Serpente

Si sentiva pesante.
Il corpo doleva in ogni punto e la testa pulsava violentemente.
La vista annebbiata vagava verso l'alto e vedeva grigio, forse un cielo cupo, gonfio di nuvole. Di tanto in tanto riusciva a delineare delle figure nere che sfrecciavano da un angolo all'altro del suo campo visivo, lasciando chiazze scure che gli rimanevano impresse quando chiudeva gli occhi. Il fango oramai secco gli tirava la pelle del viso.
Dov'era?
Cominciando a riprendere i sensi, realizzò di essere disteso sulla schiena. Le braccia gli pesavano a causa dell'armatura che, debole com'era in quel momento, gli pareva impossibile smuovere o sollevare. Il dolore si stava concentrando da qualche parte all'altezza del tronco, forse sul lato sinistro.
Le immagini sfocate cominciarono a prendere forma.
"Al termine di grandi battaglie si scatenano quasi sempre piogge straordinarie." aveva sentito dire una volta.
Grandi battaglie...
Quel pensiero accese qualcosa nel suo profondo. All'improvviso, come se fino a quel momento non avesse respirato, trasse un profondo respiro. L'odore di cadavere, assieme al dolore che questo gesto provocò al suo fianco ferito, lo stravolse e per poco non perse i sensi. Si rese conto che rimanere in mezzo a tutti quei corpi e al fango sarebbe stata la sua fine. 
Ogni muscolo del suo corpo protestava, ma alla fine il suo istinto prevalse.
Facendosi forza, cominciò a girarsi sul fianco illeso. Ogni movimento e ogni respiro gli facevano torcere le viscere per la nausea e il dolore, ma non poteva mollare. Lentamente, molto lentamente, appoggiò la mano sinistra a terra e spinse. Poi puntò il gomito destro e un po' alla volta si mise faticosamente a sedere. A tentoni trovò qualcosa a cui poggiare la schiena. Quando riuscì a raggiungere la sagoma rigida, qualunque cosa fosse, si lasciò andare e, sopraffatto dallo sforzo e dal dolore, chiuse gli occhi.
Quando li riaprì stava di nuovo piovendo. L’umidità copriva in parte l’odore di cadaveri che lo circondava e il sonno irrequieto, nonostante fosse stato lungi dall’essere riposante, gli aveva fatto recuperare qualche energia. La ferita continuava a pulsare, ma meno intensamente. Forse in realtà era meno grave di quanto gli era parso all’inizio.
Abbassò lo sguardo, scuotendo il capo per  risvegliare i sensi intorpiditi.
Tutto attorno a lui giacevano cadaveri. Molti di questi erano raggruppati o accatastati, ma almeno altrettanti giacevano abbandonati per tutto il campo di battaglia. Qui e là qualcuno di questi spiccava per qualche oggetto di valore, come un’armatura, ma la grande maggioranza era vestita in maniera povera o portava corazze leggere. Ovunque erano sparse picche e alcune armi corte come asce e daghe.
Gran parte dei soldati a terra portava le insegne di Forlì o il blu e giallo della famiglia Riario, mentre alcuni erano riconoscibili come mercenari o soldati dei contingenti alleati.
Cominciava a ricordare. Una guerra tra le famiglie Riario e Sforza per il controllo di un qualche territorio. Nonostante i ricordi cominciassero a riaffiorare era ancora tutto nebuloso e confuso. Da che parte aveva combattuto? Che ruolo aveva avuto?
Ricacciò questi pensieri. Ora doveva pensare alla propria sopravvivenza. Poco lontano da lui giaceva una lunga picca da fante piantata nel terreno. Poggiandosi di peso all’asta dell’arma gli riuscì di rialzarsi dopo pochi tentativi e di cominciare a muovere qualche passo barcollante. Guardandosi alle spalle s’accorse che fino a quel momento era rimasto appoggiato ad una sella ancora parzialmente attaccata a una carcassa di cavallo. A qualche distanza da questo era sdraiato un uomo in armatura pesante, forse lo stesso cavaliere trascinato a terra dal nemico prima che la sua cavalcatura venisse abbattuta. Il corpo del guerriero era parzialmente nascosto da un ampio cespuglio sulla soglia d’un boschetto ai margini del campo di battaglia. Decise di avvicinarsi.
Spostando alcuni rami secchi con l’asta dell’arma vide un’armatura riccamente ornata recante sul petto lo stemma di un serpente dorato che risaliva a spire dalle cui fauci usciva un uomo con le braccia alzate: il simbolo del Casato Sforza. Al fianco, appesa ad un pesante cinturone, pendeva un ornato fodero di spada, mentre l’arma stessa era appena visibile sotto al fogliame autunnale a qualche passo di distanza. Incuriosito, risalì con lo sguardo fino al volto del guerriero. Non doveva avere più di una quarantina d’anni. Il viso squadrato increspato dalle rughe e dalle cicatrici di molte battaglie era coperto da una barba chiara e ispida che a tratti sfumava verso il grigio. Gli occhi scuri erano socchiusi. Un volto che lui aveva certamente già visto prima.
Guardò meglio.
Il viso dell’altro riprese vita. Debolmente riuscì ad aprire gli occhi e lo guardò. “Massimo.” Riuscì a dire, quasi sottovoce. “Oh, grazie a Dio...” Mugugnò.
Massimo. Il suo stesso nome gli piombò addosso come un peso, dandogli nuovamente una dimensione in quella situazione surreale. Massimo Lupi detto “il Corvino” o “il Corvo”, soldato di ventura al soldo di Venezia. I pezzi stavano cominciando a tornare al loro posto.
“Costanzo Sforza.” Rispose lui, a mezza voce. “Siete più coriace di quanto non mi aspettassi.”
“Ti sorprenderei, ragazzo.” Tossì piuttosto violentemente, nello sforzo di parlare. “Non sono sopravvissuto a guerre con Veneziani, Fiorentini e Romani per farmi ammazzare da quello stolto del Riario.” Sputò quel nome con disprezzo.
“Mi sa che questa volta ci siete andato più vicino di quanto non vorreste ammettere.”
“Sciocchezze! In Toscana ho visto di peggio.” Borbottò l’altro. “Ed ora dammi una mano ad alzarmi... Temo d’essermi rotto una gamba.”
Faticò non poco per rimetterlo in piedi e spesso dovette fermarsi perché una volta doleva il fianco a lui, una volta la gamba all’altro, un’altra ancora perché il peso o qualche pezzo dell’armatura dello Sforza gli impediva di muoversi bene. Per quel poco che ne sapeva Massimo dell’arte medica appresa sul campo di battaglia, la gamba del cavaliere, seppur probabilmente spezzata, era fortunatamente in condizioni abbastanza buone da affrontare un breve viaggio almeno fino a Montelabbate.
Quando riuscirono a mettersi in marcia era ormai pomeriggio inoltrato e, attraverso le nuvole che andavano diradandosi, si poteva vedere il sole calare verso ovest. Mentre attraversavano il campo di battaglia, il vecchio analizzò la disposizione dei morti con occhio esperto. “Temevo peggio.” Affermò dopo un lungo silenzio. “Alla faccia di quel dannato Girolamo. I suoi archibugi non sono valsi quel che li ha pagati, a quanto pare.” Molti dei cadaveri a terra, notò Massimo, recavano le insegne della Chiesa o del casato Riario. “Pace all’anima di questi poveri diavoli.” Commentò Costanzo. “Erano dei bravi soldati. Uno spreco per questa guerra inutile."
Guerra inutile. Uno strano concetto per soldati di ventura, come loro, disposti a combattere per il migliore offerente. Costanzo Sforza stesso aveva combattuto dall’altra parte del fronte, appena qualche anno prima, poi era passato coi milanesi ed ora parteggiava per Venezia in cambio di una buona condotta di militari ed il titolo di Governatore Generale.
“Raccogli la mia spada, ragazzo. Torniamo al castello.” Concluse lo Sforza con voce roca. “Per oggi ne ho avuto abbastanza, di tutto questo.”

Il castello di Montelabbate si trovava poco più a sud e fin da lì lo si poteva vedere stagliarsi in cima alla collina sopra il paese. L’attacco nemico, proveniente da nord, li aveva costretti ad uscire allo scoperto per evitare che la cittadina venisse saccheggiata dai soldati del Borrini, tra i quali molti erano mercenari.
Massimo da solo avrebbe raggiunto la fortezza prima del calar del sole, ma con lo Sforza ferito sarebbero arrivati certamente dopo il calar del sole.
Dapprima dovettero discendere il fianco della collina sulla quale s’era combattuta la battaglia, lungo un percorso di sentieri che attraversavano basse boscaglie piene di rovi. La discesa fu difficile e più volte dovettero fermarsi, perché Costanzo continuava a tossire ed accusare dolori ad ogni parte del corpo.
L’attraversamento della vallata tra le due colline fu più semplice, poiché il terreno pianeggiante e coltivato poneva meno ostacoli e permetteva ai due di proseguire abbastanza rapidamente nonostante il sole fosse oramai svanito tra i colli in cima alla valle.
Massimo però non riusciva a trovare pace. Mentre il suo Signore sembrava via via distendersi man mano che si allontanavano dalla battaglia, per quanto glielo consentissero le sue ferite, Massimo continuava ad essere teso. Si sentiva osservato e nella sua mente si stava facendo strada il timore d’essere seguito. Da chi?Si fermarono di nuovo, questa volta in un piccolo piazzale all’incrocio tra due vie sterrate che attraversavano i campi. Costanzo stava mostrando segni di debolezza sempre più evidenti ed era stremato per la lunga marcia in quelle condizioni. Massimo lo fece sedere su un masso  dalla superfice piatta e si appoggiò alla lancia per riprendere fiato.
Fu in quel momento che se ne accorse.
Un movimento tra le piante del boschetto alla sua sinistra. Sulle prime pensò si potesse trattare d’un animale, ma i suoi timori lo fecero desistere da una giustificazione tanto semplice. Rimase in ascolto per qualche altro momento, guardandosi attorno e tendendo le orecchie ad ogni minimo suono.
Sulle prime, nulla.
Poi però di nuovo un suono, questa volta più vicino, un fruscio dal campo di grano nella direzione opposta al primo movimento che aveva individuato. Il sospetto si stava facendo convizione.
Si raddrizzò e prese la lancia con entrambe le mani, puntandola alternamente verso il bosco e verso il campo, aspettandosi di veder qualcosa balzare fuori in qualsiasi momento.
Una breve occhiata al ferito che, esausto, non s’era accorto di nulla e continuava a portare le mani alla gamba ferita, cercando di trattenersi dal gemere di dolore.
“Mio Signore.” Intervenne a mezzavoce Massimo. “Mio Signore Sforza.”
“Che... Che c’è?” Chiese l’altro di rimando evidentemente scocciato quanto dolente per la ferita.
“Temo ci abbiano seguito.”
“Che diavolo stai dicendo, ragazzo? Chi?”
“Loro...”
Si stavano facendo avanti dalle ombre della sera, ammantati di nero, dei figuri scuri coi volti coperti. Al chiarore degli ultimi raggi del sole, il ferro d’una lama brillava nell’oscurità tra le fronde.
Massimo puntò la lancia e piantò i piedi.
Erano circondati.

Questa è la prima puntata della serie che sto scrivendo dal (provvisorio) titolo "Anno Domini 1483".
Sto facendo delle ricerche storiche via web sull'epoca per rendere meglio i personaggi e l'atmosfera e devo dire che mi sono reso conto d'aver sempre sottovalutato questo periodo storico affascinante e ricco d'intrighi.
Vi lascio due link per saperne di più su qualche nome che è stato fatto nella puntata di oggi:
Costanzo I Sforza
Girolamo Riario

sabato 6 ottobre 2012

Un po' di orrore...

Salve a tutti da Cordelia! (^^)
Questo week end vi lascio con un mio simpatico mini racconto horror... Devo dire che ho scoperto di divertirmi molto con questo tipo di storie.
Di sicuro non sarà l'ultima.

La storia di quella casa, eh?
Ve la racconterò, così come a me la raccontò il vecchio Joe...
Erano arrivati due mesi prima.
Una coppia strana, a detta di tutti: giovani, ma coi capelli già grigi e gli occhi scavati dalle rughe. C'era da chiedersi come avessero potuto mettere al mondo una bimba così vispa e graziosa: un angioletto dai capelli nerissimi, che non faceva altro che correre di qua e di là. Non si sarebbe potuto immaginare niente che stridesse di più con quei due genitori slavati e stanchi di vivere.

Bastò una settimana perché in tutto il quartiere non si facesse che mormorare a proposito delle strane urla e cantilene che si udivano provenire da quelle mura cadenti.
Stregoneria, dicevano tutti.
La zingara che viveva nella baracca a est del fiume aveva appeso strani pezzi di stoffa alla tenda che le faceva da porta, e aveva smesso di uscire di casa, dopo il tramonto. Diceva che il male era entrato in quella vallata. Diceva che era colpa loro se gli animali morivano e i bambini cadevano preda delle febbri.
E questo non era tutto.
La moglie stava sempre in veranda o in cucina: quando era in veranda, guardava il vuoto accarezzando i gatti, mentre quando era in cucina guardava sempre il vuoto ma... li cucinava i gatti. O almeno questo era ciò che sostenevano i ragazzi del quartiere.
Il marito non si vedeva mai. Che lavoro facesse nessuno lo sapeva, ma usciva tutte le mattine all'alba, trascinando dei sacchi che puzzavano di marcio.
I bambini dicevano alle mamme che la loro nuova amichetta aveva sempre strani lividi intorno al collo e scoppiava a piangere ogni volta che vedeva un gatto. Aveva paura.
La gente era terrorizzata, ma soprattutto provava pena per quella povera creatura. Come si poteva fare per allontanare quella bimba innocente da quella casa sacrilega?!
Il vecchio Joe, che abitava proprio dall'altra parte della strada, ci pensava e ripensava ogni notte. Pipa alla bocca, seduto nella sua veranda, quante volte aveva visto la piccola sgattaiolare fuori furtiva nel cuore della notte, per sfuggire alle urla e le percosse?
Qualcosa bisognava pur fare!
Infine, una notte, le grida dell'uomo erano diventate alte a tal punto che il vecchio Joe, preso coraggio – e fucile, si era avviato verso la casa, deciso a fermare quei due pazzi.
Spalancata la porta, aveva scorto una scena che gli aveva gelato il sangue nelle vene: la bambina, in piedi sul tavolo, picchiava la madre sulla schiena con un lungo bastone.
Dal forno provenivano un odore nauseabondo e dei gemiti soffocati.
“Come hai osato tentare di nuovo di uccidermi? Tu... Stregone da strapazzo!” aveva strillato la piccola vocina infantile, folle di rabbia, rivolta proprio al forno. “Io sono il famiglio che vi ha dato Satana!”
La donna l'aveva allora afferrata per il braccio, sopportando le sferzate.
“Uccidila!” aveva implorato rivolta al vecchio Joe. “E brucia tutto!”
Quando, la mattina successiva, le fiamme erano state domate, accanto al corpo carbonizzato della donna, era stato ritrovato il cadavere di una specie di enorme ratto, con un foro di proiettile nel cranio.

lunedì 1 ottobre 2012

Stelle Cadenti


Pioveva fuoco dal cielo, questo pensò Karl guardando fuori dalla sua capanna in mezzo ai campi. Impaurito spense la candela, temendo che il cielo vedendo dall’alto la sua luce avrebbe gettato tutta la sua furia contro di lui. Aveva perso la moglie anni prima, dalla quale non aveva avuto figli. Ormai i suoi capelli castani erano diventati grigi ed intorno ai suoi occhi color nocciola c’erano rughe, la pelle era scottata dal sole per colpa dei suoi giorni in mezzo ai campi. La sua era una vita dura, una vita fatta di sacrifici. Aveva quel piccolo terreno che gli dava abbastanza da vivere lì lontano dal villaggio. Gran parte di quel che guadagnava veniva speso in birra. Non era di certo l’ubriacone del paese, ma ci andava tristemente vicino. Gli restava solo l’alcool come fonte di gioia in una vita patetica, una vita senza senso da quando la sua donna se ne era andata, senza figli, un lavoro faticoso e privo di gioia. Eppure ora aveva paura di morire. Se ne stette rannicchiato, ad osservare dalla finestra. 
Stelle cadenti, le chiamavano così quando il cielo crollava. Di tanto in tanto lanciava nervose occhiate alla luna piena, temendo che anche quella gli sarebbe caduta addosso, ma lei rimase lì. Invece vide chiaramente una stella tutto d’un tratto cadere dall’alto verso la sua destra e piombare all’interno del grande bosco davanti ai suoi campi. Il boato fece tremare la terra e la polvere dalle travi si riversò all’interno dell’unica stanza in cui si trovava il contadino. Gli alberi si piegarono sospinti da un improvviso vento. Il lampo che ne seguì lo costrinse a chiudere gli occhi e mentre si tappava le orecchie si chinò sotto la finestra. La capanna tremava. Un secondo bagliore più debole lo spinse a stringere ancora di più le palpebre spaventato e la terra tremò ancora anche se leggermente. Quando riaprì gli occhi la pioggia di fuoco era finita, il cielo notturno era sgombero.
Fuori dalla capanna la notte era troppo silenziosa: non c’era il solito canto dei grilli o il suono di qualche animale notturno e l’aria era carica di qualcosa che Karl non riusciva ad identificare. Guardò verso il bosco. I pini in lontananza erano visibilmente piegati, parecchi aghi erano caduti dai loro rami ed ora il terreno era coperto da un manto verde scuro. Si sentiva attratto, come trascinato in quel luogo buio a quell’ora della notte. Fortunatamente la luce della luna rendeva obsoleto l’uso della torcia e per di più aveva troppa paura per rendersi così visibile da lontano. Prese l’accetta vicino ad una catasta di legna da ardere e si addentrò nel bosco, a capo chino attento a dove mettere i piedi per non incespicare in qualche ramo, sasso o buca.
L’aria carica di odori lo accolse. Da qualche parte una volpe correva in direzione opposta seguita da una lepre e man mano che si addentrava sempre di più vedeva animali correre via o nascondersi nelle insenature del terreno, in buche, tra i rami. Tutto ciò turbava Karl, ma era come se un filo invisibile lo trascinasse, facendolo andare avanti. Gli alberi ora erano fortemente inclinati, alcuni erano persino caduti. Fino a quando arrivò ad un tratto dove si ergeva una selva di pini bruciati, di cui però ancora pochi si ergevano come scheletriche dita nere e la luce filtrava meglio. Karl guardò con cura ora che poteva e vide che al centro preciso di quella selva i pini erano spariti, lasciando al loro posto la cenere nerastra, circondando un gigantesco cratere.
Il contadino si fece coraggio, facendosi avanti in mezzo a quella distesa piana piena di cenere nerastra, avvicinandosi man mano all’enorme cratere sempre più attirato. Non sapeva cosa sentiva di preciso, c’era curiosità, c’era paura, ma anche qualcos’altro, un desiderio, ma non riusciva a capire di cosa con esattezza. Prima che potesse affacciarsi però sentì un rumore: Zoccoli contro il terreno dall’altra parte del cratere. Forse non li aveva sentiti prima, forse quella tensione lo aveva distratto, si voltò e corse a perdifiato verso uno degli alberi inceneriti, il primo che trovò fu il suo nascondiglio ed attese qualche istante là dietro. Sentì quei rumori farsi sempre più vicino, fino a fermarsi, poi dei rumori di passi ed una voce:
< Voi due, controllate cosa c’è là dentro. > Una voce maschile ed imperiosa sovrastò ogni rumore.
Il contadino ancora una volta si fece coraggio, socchiuse gli occhi per mettere bene a fuoco. Erano una ventina di uomini, erano ben visibili perché portavano delle torce. Erano dei soldati, probabilmente delle guardie del Lord dato che portavano la sua insegna: Un corvo nero in campo bianco, portavano pettorali in cuoio, cotta di maglia ed un elmo aperto. Ora erano tutti a piedi tranne due, quello che sembrava il loro comandante da come dava ordini ed un uomo incappucciato che cercò di seguire due soldati, proprio quelli che si avvicinavano al cratere. Il cavallo dell’uomo si incaponì, non voleva muoversi, incominciò a nitrire, ad agitarsi, a scalciare, tanto che l’uomo incappucciato alla fine fu costretto ad arretrare, solo a quel punto il suo destriero sembrò calmarsi. I due mandati in avanscoperta si muovevano a passi lenti, uno di loro incominciò a sollevare la torcia che portava, una volta raggiunto il ciglio del cratere la sporse in avanti, quando il braccio fu protratto totalmente le cose cambiarono radicalmente. La torcia venne lasciata cadere nel vuoto e la guardia lanciò un urlo spaventoso, folle, arretrò e si accasciò a terra. L’altra incominciò a correre via, urlando di continuo:
< Scappate! Fuggite da qui! > I soldati incominciarono ad agitarsi, tranne il comandante e l’uomo incappucciato.
< Prendetelo, non lasciatelo scappare. > Ordinò quest’ultimo, un paio di uomini partirono di corsa per raggiungere quel povero pazzo.
Alla fine il comandante e l’altro scesero da cavallo, seguiti dal resto del gruppo. Presero una torcia, guardando verso il basso, il comandante arretrò di un passo, Karl poteva vedere da lì una traccia di paura e disgusto apparire e svanire dal suo volto. Finalmente riuscì a vedere il volto dell’uomo incappucciato, era un uomo maturo, dalla pelle olivastra, capelli neri come gli occhi e tratti acuminati, aveva un aspetto decisamente insolito da vedere in quel luogo. Qualsiasi cosa ci fosse là sotto non lo turbò particolarmente, lo disgustò, ma poi apparve un sorriso sulle sue labbra sottili.
< Come facevi a sapere che sarebbe stato qui? > Chiese il comandante, voltandosi verso l’uomo incappucciato, quello si mise a ridere.
< Non sapevo che ci sarebbe stato lui ma che le stelle sarebbero cadute, è successo molto tempo fa e doveva succedere di nuovo. > Si voltò verso il vecchio, con un ghigno divertito. Aveva un accento che non era di nessuna terra da quel lato del mare. < La storia si ripete sempre, non solo quella degli uomini. Anche l’altra volta la pioggia di stelle portò non solo vecchie rocce con sé. >
Da là sotto arrivarono orrendi versi, suoni che non aveva mai sentito il contadino, come se uscissero da qualcosa che non poteva essere di quel bosco, nessun lupo, nessun cervo, capriolo o cinghiale emetteva suoni simili, quei suoni fecero rabbrividire non solo lui. Molti soldati si agitarono, altri incoccarono le frecce, sfoderarono le spade o afferrarono le lance.
< Fermi! > Ordinò lo straniero, alzando la mano destra. < Dobbiamo cercare di prenderlo vivo, da morto non ci servirà nulla, branco di sciocchi! >
Poi si chinò, portandosi la mano destra alla tempia, il comandante strabuzzò gli occhi e quei suoni si attenuarono.
< Co-Cos’era quella voce? > Domandò il vecchio, i soldati abbassarono le armi ma si scambiarono occhiate perplesse.
< Ma signore, io non ho sentito nulla. > Spiegò una delle guardie, lo straniero lo azzittì con un’occhiata.
< Non stava parlando alle nostre orecchie, ma alle nostre menti. E’ potente quanto credevo, dobbiamo fare attenzione … potrebbe aver chiamato qualcuno. > Detto ciò guardò gli uomini. < Voi, circondate la buca, gli altri controllino che non ci siano estranei. >
Gli uomini incominciarono a disporsi intorno al cratere, ma altri presero a sparpagliarsi, un paio si stavano avvicinando proprio a lui. Karl non perse tempo, diede un’ultima occhiata ed incominciò a correre lontano da lì. Man mano che correva le voci si fecero distanti, sentì quegli orrendi versi ancora una volta, ora molto più alti di prima, risposero così altri suoni: corde tendersi, altre lame venir sfoderate, poi rumore di roccia e terriccio, forse qualcuno si stava calando nella fossa. Poi un urlo lo travolse, tanto chiaro da fargli accapponare la pelle.
< Aiuto! Aiutatemi vi prego! > Ma non si voltò. Karl voleva tornare alla sua patetica vita.


Questo è il primo episodio di una serie, che andranno a comporre un racconto breve dall'evocativo nome "Dèi Caduti" composto da uno dei nostri primi "seguaci"

Daniel T. è un ragazzo di 23 anni appassionato di scrittura fin da adolescente. I suoi interessi in campo letterario variano dal fantasy all'horror, tra i suoi autori preferiti si possono citare George R.R. Martin, J.R.R. Tolkien, H.P. Lovecraft ed Edgar Allan Poe.

Per mandarci i vostri racconti, le vostre proposte, idee o novità potete scriverci a bastionsofillusion@gmail.com.





mercoledì 26 settembre 2012

Un nuovo inizio.

Salve a tutti!

Finalmente ci si mette al lavoro.
Sto cominciando a scrivere un racconto a puntate un po' particolare "su commissione" di Cordelia, che mi ha aiutato a decidere setting, tipologia e personaggi. Al momento sono ancora in fase di preparazione, ma una piccola premessa ve la posso fare: l'ambientazione.

Si perché a Cordelia non piacciono le cose semplici e così ha avuto la bellissima idea di propormi come ambientazione il difficile genere del fantasy storico e, non contenta d'avermi già dato così un gran lavoro di ricerca da fare ha pure deciso che il luogo e l'epoca sarà l'Italia del rinascimento. Un altro piccolo indizio si cela nel quadro qui di fianco. Chi è?
(Ovviamente scherzo, Cordy, non me la sono presa male, anzi! ;D)

Perciò restate connessi a Bastions perché molto presto ne vedrete delle belle!

venerdì 21 settembre 2012

Benvenuti!

Salve a tutti e benvenuti a Bastions of Illusion!
Il piccolo angolo di web in cui siete incappati rappresenta il primo passo in un ambizioso progetto: spingere alla ribalta autori italiani emergenti di fantasy e fantascienza.
In questo blog si parlerà delle nostre creazioni (se avrete pazienza di seguirci, avrete modo di conoscerci), ma anche di quelle di tanti ospiti che - almeno spero - vorranno farci leggere le loro creazioni.

Speriamo che questo luogo-non luogo diventi presto un punto di ritrovo per tutti coloro che amano le opere fantastiche di qualsiasi genere, e per tutti i viandanti di mondi impossibili come noi.

Per chiunque volesse contattarci, ecco la nostra mail:

bastionsofillusion@gmail.com

A prestissimo,
Cordelia 

Sun Fading

L’aria puzzava ancora di sudore e carne bruciata.L’assalto era terminato da poco e sulla Lost Star erano già in corso le riparazioni dello scafo e delle camere interne danneggiate dall’intrusione dei soldati nemici all’interno della nave. Shak guardò fuori dalla vetrata lungo uno dei corridoi esterni della nave verso i rottami di quella che una volta era una nave di pirati o di una qualche piccola fazione di briganti o ribelli locali. 
Erano passati appena pochi giorni dalla sua ultima battaglia, al largo del pianeta Elen, nell’omonimo sistema e ancora non riusciva a farci l’abitudine.Non combatteva per piacere o perché, essendo un mutato, un umano geneticamente modificato per ottenere una specie di super-soldato, era stato progettato per farlo... No.
Per lui era come una droga, un dolce momento d’estasi nel quale si lasciava andare e faceva vagare la sua mente e le sue armi confuse in un turbinio tra il frastuono dei fucili automatici e le urla dei morenti; in qualche modo si sentiva vivo solo quando i suoi occhi del colore dell’oro liquido si posavano sul suo prossimo bersaglio nel momento in cui questo si rendeva conto del pericolo e capiva che era comunque troppo tardi...
Eppure ogni volta che quell’estasi finiva gli lasciava un sapore amaro in bocca, un senso di incompletezza, come se tutto questo, alla fine, non avesse senso. Shak aveva sempre visto il campo di battaglia come una gara alla sopravvivenza e sopravvivere aveva spesso il caro ma esaltante prezzo di dover guardare in faccia la morte, rendendosi conto, spesso troppo tardi, che molti al contrario di lui non avevano retto a quello sguardo e avevano ceduto il loro corpo alle pallottole di un fucile.
Ai resti sul campo di battaglia si stavano lentamente avvicinando delle piccole luci. Erano iniziate le operazioni di recupero di materiale dai rottami della nave distrutta. Il capitano della Lost Star ci teneva sempre a ripulire le sue vittime fino in fondo. 
Shak si diede una sistemata alla mimetica grigia macchiata di sangue rappreso, sospirò. Non avrebbe davvero mai fatto l’abitudine alla sensazione di vuoto dopo aver strappato molte vite dai loro corpi. Notó nuove macchie rosse e, contemporaneamente sentí una strana sensazione, come un caldo torpore che saliva dall´addome. 
Ebbe l’impressione che tutto si facesse più pesante. Il fucile di fabbricazione imperiale nella sua mano, la sua collana recante il simbolo sacro di una divinità della quale non ricordava il nome, il suo giubbotto antiproiettili, le sue palpebre...
Forse non gli importava davvero piú nulla...
“Alla fine” – pensó – “anche i soli muoiono...”